Roberto Denti, Il cerchio dei tre fratelli, Mondadori, Milano, 1990
Tre fratelli, tre amici diversi, ma nel contempo uguali. Un bambino italiano, uno arabo e uno giapponese diventano fratelli adottivi e imparano a crescere nel rispetto della diversità, che può manifestarsi sottoforma di semplici abitudini differenti, ad esempio scattare numerose foto durante i viaggi:
«È semplice» rispose «non sempre uno ricorda quello che vede e allora la fotografia lo aiuta a rivedere tutti i particolari». «Ma tu sei sempre qui» osservarono Aziz e Cesare. «È vero, ma se un giorno cambiamo casa o andiamo in vacanza, io voglio avere la possibilità di rivedere tutto quello che desidero». «Allora è questa la ragione per cui tutti i giapponesi fotografano ogni cosa come matti». «Non sono matti…» disse Tsushima quasi offeso. «Semplicemente non vogliono dimenticare niente di quello che vedono. Un conto è raccontare quello che si è visto e un conto far vedere agli altri e rivedere per se stessi, anche dopo molti anni, le cose che ci hanno interessato e incuriosito».
Tuttavia le differenze si riscontrano anche in ambiti un po’ più delicati, come quello religioso, in cui i bambini si pongono molte domande:
Aziz ascoltò questo racconto molto pensieroso e disse che non capiva a cosa servissero tanti Dei quando il Dio è uno solo. I tre bambini difendevano le loro chiese dicendo che ciascuna era più bella e più importante delle altre, e non riuscivano a mettersi d’accordo. Non avendo argomenti validi finivano per litigare, così come quando Aziz e Tsushima chiedevano a Cesare di spiegare le parole che in televisione non capivano. […] «Qual è la religione vera?» domandò Cesare. «Quella nella quale ciascuno crede» rispose il papà […].
In tale contesto risulta fondamentale la presenza dei genitori i quali, grazie ai loro saggi e preziosi consigli, guidano i tre fratelli in questo affascinante percorso che porta alla scoperta dell’Altro. Scoprono con meraviglia le analogie e le differenze delle loro tre culture, raccontando ciascuno una fiaba tradizionale che spiega il modo in cui si scrive nel proprio Paese: in italiano da sinistra a destra, in arabo da destra a sinistra e in giapponese dall’alto verso il basso.
Tsushima chiese se c’erano altri modi di leggere e scrivere, ma la mamma disse che non lo sapeva, tranne il fatto che moltissimi popoli usavano alfabeti diversi, come ad esempio i russi che scrivono con l’alfabeto cirillico e gli indiani con quello devanagari. Gli egiziani antichi utilizzavano i geroglifici: per ogni parola c’era un segno diverso che cercava di imitare l’animale o l’oggetto che doveva rappresentare. Anche il cinese nasce da geroglifici e le cose si complicano quando anziché un animale o un oggetto si deve rappresentare una parola astratta, come bontà, giustizia, libertà, gioia, ecc.
Tutto ciò diventa un’importante occasione di confronto e di crescita culturale che spinge i tre fratelli a cercare e, dunque, ad inventare un sistema di scrittura univoco, capace di rappresentarli: la scrittura a cerchio, che lega tutti e tre i modi di scrivere e, in fondo, anche i loro modi di essere, esprimendo la forza dell’intenso e tenero affetto che li unisce.
Eppure un sistema nuovo e piacevole di scrivere in modo diverso da tutti quelli conosciuti dovevano pur trovarlo! […] Un giorno, per scherzo e perché si erano messi a pasticciare su un foglio già usato e nel quale lo spazio a disposizione era poco, decisero di scrivere una parola per ciascuno di una stessa frase. Così venne fuori, per caso, un’invenzione che soddisfece il desiderio di tutti e tre i fratelli: la scrittura a cerchio!
Simona Zaccaria
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